II
Detti Principi del Nord, bardati, impomatati, inguantati, gallonati, con tanto di barba e di riga all'occipite (le ciocche riportate sulle tempie per dare rilievo ai profili di bronzo) erano in attesa, una mano con l'elmo poggiata sulla coscia destra, l'altra a tormentare l'elsa della sciabola, stando in bilancia come stalloni che fiutano la polvere. S'intrattenevano coi notabili: il grande Mandarino, il Gran Maestro delle Biblioteche, l'Arbiter Elegantiarum, il Conservatore dei Simboli, il Rettore delle Selezioni e dei Ginecei, il Pope delle Nevi e l'Intendente della Morte, tra due ranghi di scribi allampanati e svelti, con la cannuccia al fianco e il calamaio sul cuore.
Le loro altezze si congratularono col Tetrarca, complimentandosi del buon vento che... in un giorno così glorioso... in queste isole - chiudendo con un elogio alla metropoli, la cui Basilica Bianca, dove avevano udito un Toedium laudamus sulla pianola dei Sette Dolori, e il Cimitero degli Animali e delle Cose non erano tra le curiosità di minor conto.
Fu servito uno spuntino. Ma dato che i Principi si facevano scrupolo di toccare la carne presso degli ospiti tanto ortodossi in fatto di vegetarianismo e ittiofagia, la tavola così delicatamente disposta, tra i cristalli, sembrava dipinta, coi mazzi di carciofi callipigi natanti in baccelli di ferro bivalve e puntuti, con gli asparagi sui graticci rosa di giunco, con le anguille grigio-perla, e i dolci di datteri, la gamma delle gelatine di frutta, la varietà di vini dolci.
Allora il Tetrarca e il suo seguito, con in testa il Profitente d'inezie, si sentirono in dovere di fare agli ospiti gli onori di palazzo, del titanico funereo palazzo venato di livido.
E per incominciare, una visita al panorama delle isole dall'alto dell'osservatorio, per poi scendere di piano in piano attraverso il parco il serraglio e l'acquario, giù giù fino alle cripte.
Il corteo attraversò lesto, in punta di piedi, le stanze di Salomé, arroccate - è il caso di dire - pneumaticamente lassù tra un continuo sbattere di porte e un dileguare di due tre torsi di negre dalle scapole di bronzo lucenti. Giusto in tempo per notare al centro di una sala rivestita di maioliche (oh, così gialle!) una vasca d'avorio lasciata là con una spugna bianca di dimensioni ragguardevoli, i rasi inzuppati e un paio di babbucce rosa (oh, così rosa!). Poi una libreria, poi una stanza ingombra di materiali metalloterapici, una scala a chiocciola e una piattaforma per una boccata d'aria dall'alto - ah! giusto in tempo, prima che sparisse una ragazza musicalmente avvolta dentro una mussola d'impalpabile giunchiglia a pallini neri, per vederla scivolare via nel vuoto, con un gioco di pulegge, verso altri piani!...
Ai Principi, che l'intrusione già prosternava in galanti salamelecchi, fu di monito quel cerchio d'occhi stupefatti che stava a significare: «Bene bene, sia chiaro che di tuttociò che qui accade, niente ci riguarda».
Si riprese a circolare all'aperto, tra frasi leggere di ammirazione soffocata, intorno a questa cupola d'osservatorio che fa da tetto a un grande equatoriale di diciotto metri, cupola mobile, pittata a affresco impermeabile, e la cui massa di centomila chili sospesa su quattordici perni d'acciaio nella sua slitta di cloruro di magnesio virava, a quanto pare, in due minuti sotto la lieve pressione della mano di Salomé.
A proposito, se a questi impagabili esotici gli prendesse l'uzzolo di buttarci di sotto? pensarono unibrividendo i due Principi. Ma in due, nella loro uniforme attillata, erano dieci volte più robusti di quella dozzina di pallidoni depilati, con le dita cariche di anelli, sacerdotalmente impediti nei loro broccati rilucenti di lamé. E si divertirono a riconoscere laggiù al porto la loro galera, simile a un coleottero dalla teca di lamiera forbita.
E quelli intanto a snocciolargli le isole, arcipelago di chiostri naturali, ognuna con la sua casta, ecc...
Ridiscesero, passando per una sala dei Profumi dove l'Arbiter Elegantiarum prese nota dei doni che le loro altezze si sarebbero degnate di accogliere; poi additando i pasticci segreti di Salomé: belletti senza carbonato di piombo, ciprie senza biacca né bismuto, corroboranti senza cantaride, acque lustrali senza protocloruro di mercurio, depilatori senza solfuro di arsenico, latte senza sublimato corrosivo né idrossido di piombo, tinture vegetali purissime senza nitrato d'argento, iposolfito di soda, solfato di rame, solfuro di sodio, cianuro di potassio, acetato di piombo (possibile?) e due damigiane d'essenze di fiori marzolino - autunnali.
In fondo a un corridoio umido, interminabile, che puzza d'agguato, il Profitente aprì una porta resa verde dal muschio e dalle fungosità come un vecchio scrigno: e il sovrano silenzio del vantato giardino pensile colse tutti di sorpresa - ah! giusto in tempo per veder sparire dietro la curva di un sentiero il fru-fru di una figurina ermeticamente avvolta dentro una mussola di impalpabile giunchiglia a pallini neri, scortata da molossi e da veltri i cui latrati saltellanti, veri singhiozzi di fedeltà, finirono col perdersi in lontani echi.
Oh! solitudine chilometricamente fonda d'un verde severo, in una eco di labirintici recessi, annaffiata da macchie di luce, di null'altro addobbata che di legioni d'erti pini, coi nudi tronchi rosa-salmone, espansi solo lassù a ventaglio in polverose ombrelle orizzontali... Le barre di luce si posavano tra quei tronchi con la stessa tranquilla dolcezza che esse assumono tra le colonne di una cappella claustrale dalle finestrelle grigliate. Una brezza marina spirava tra i fusti eccelsi, col rombo bizzarro di un direttissimo che si perda nella notte. Poi il silenzio delle altezze, che è di casa, s'installava nuovamente. Prossimo, oh! in qualche luogo, un usignolo si sgolava in raffinati gorgheggi; lontano gli rispondeva un altro, come in famiglia, dentro una voliera secolarmente dinastica. Era un inoltrarsi computando lo spessore di quel suolo artificiale, sul veltro delle foglie morte e degli strati di aghi di mille epoche trascorse, così accogliente per le radici di quei pini patriarcali! E ancora: abissi di prati, di pendii erbosi evocanti festività faunesche, di acque morte dove s'impegolano noiati annosi cigni adorni d'orecchini troppo pesanti per dei colli affusolati; e svariati decameroni di statue policrome, tirate giù dai basamenti, in pose di una nobiltà sorprendente.
Per finire, il recinto delle gazzelle faceva da trapasso, del resto senz'altra pretesa, tra i pomari e il Serraglio e l'Acquario.
Le belve, al passaggio, neanche alzarono le palpebre; gli elefanti si dondolavano in un robusto frusciare d'intonaco, ma il loro pensiero era altrove; le giraffe, pur nel garbo del manto caffellatte, parvero eccessive, ostinandosi a guardare più su della corte vivace; le scimmie non si curarono d'interrompere le scene d'intimità del loro falansterio; le uccelliere scintillavano assordanti; i serpenti, da una settimana, non smettevano più di cambiar pelle; e le scuderie apparivano vuote proprio delle bestie più pregiate: stalloni cavalle e zebre dati in prestito alla municipalità per una cavalcata in quel giorno.
L'Acquario! Ah! L'Acquario, per esempio! Fermiamoci qui. Come volteggia in silenzio...
Labirinto: a destra di grotte a forma d'ambulacro, a sinistra di paratie con squarci vitrei e luminosi per le nazioni sottomarine.
Lande coi dolmen incrostati di ornamenti gommosi, circhi a gradoni basaltici dove i granchi in un ottuso brancicante buonumore postprandiale s'intralciano in coppia con occhietti ridevoli tra le chele cuculiatorie...
Pianure e pianure di una rena così fine che talvolta si leva sotto i colpi di coda d'un pesce piatto venuto da chissaddove, in un garrire libertario d'orifiamma, e che è visto passare e che ci lascia e se ne va, tra uno spiare qua e là d'occhiacci a fior di sabbia, e in ciò sta proprio tutto il suo quotidiano.
O una desolazione di steppe con al centro un solo albero, folgorato, ossificato, dove a grappoli vibratili saprofitano gli ippocampi...
E sfilate di muschi, in un cavalcavia di ponti naturali, dove ruminano in un ribollio fangoso le gualdrappe embricate dei limuli dalla coda di topo, e qualcuno si dibatte capovolto, così, di suo gusto, tanto per strigliarsi...
Sotto caotici archi di trionfo in rovina le aguglie vanno in giro come frivoli nastri; e migrano alla buona gl'ispidi nucleobranchi dalle ciglia a ciuffo intorno a una matrice che si fa vento nella monotonia dei lunghi viaggi...
E campi di spugne, spugne dalle parcelle di polmone; coltivazioni di tartufi dal velluto arancione; e tutto un cimitero di molluschi madreperlacei; e queste piantagioni di asparagi fittili e turgescenti nell'alcool del Silenzio...
E a perdita d'occhi distese, distese smaltate di bianche attinie, di cipolle grasse a puntino, di bulbi dalla mucosa viola, di lembi di trippe finiti da qualche parte ma in grado di rifarsi per davvero un'esistenza, di moncherini le cui antenne ammiccano al corallo dirimpettaio, di mille verruche senza senso; un'intera flora fetale e claustrale e vibratile che agita il sogno imperituro di poter un giorno sussurrarsi mutui rallegramenti sullo stato attuale delle cose...
Oh! ancora questo altopiano, cui s'abbarbica a ventosa la Scolta di un polpo, grasso e glabro minotauro di tutta una regione....
Prima di uscire, il Pope delle Nevi si gira verso il corteo che ristà e parla, quasi recitasse un'antica lezione:
«Né giorno né notte, Signori, né inverno né primavera, né estate né autunno, e altre simili fanfaluche. Amare, sognare, mai mutare di posto, al riparo da cecità imperturbabili. O mondo di soddisfatti, voi state in una beatitudine cieca e silenziosa, mentre noi, noi ci inaridiamo in smanie sopraterrestri. Perché mai le antenne dei nostri sensi, di noi, non sono limitate dal Cieco e dall'Opaco e dal Silenzio, invece di fiutare di là dal nostro naso? Perché non sappiamo incrostarci nel nostro cantuccio e lì fermentare la sbronza del nostro piccolo Io?
«Tuttavia, o villeggiature sottomarine, pur con le nostre smanie sopraterrestri, noi siamo a conoscenza di due leccornie che vi valgono: il viso della troppo amata che sul guanciale si sigilla, ciocche piatte agglutinate nei sudori di poco fa, bocca ferita che rivela il pallore dei denti in un raggio d'acquario della Luna (oh, non cogliete, non cogliete!) - e la Luna stessa, questo giallo girasole, schiacciato, inaridito a forza d'agnosticismo (oh! cercate, cercate di cogliere!)».
Così per l'Acquario; ma quei principi stranieri furono in grado di capire?
Rapidi e discreti, tutti infilarono il corridoio centrale dei Ginecei, affrescati da scene callipediche, di una mestizie fradicia d'aromi femminili; non si sentiva che il gorgoglio di un gioco d'acqua - a sinistra? a destra? - abbeverante con la sua freschezza la rete di una melopea indicibilmente schiava, sterile e sventurata.
L'ignoranza dei riti locali potendo esporli a qualche sinistra topica, i Principi attraversarono d'un sol passo discreto la necropoli tetrarchica, una doppia fila di armadi a muro, celati da ritratti a figura intera, che racchiudono fiale e quantità di realistici oggetti devoti, naturalmente degni di devozione solo per la famiglia.
Ma era chiaro che desiderassero soprattutto rivedere il loro vecchio amico Johanaan!
Seguirono dunque un funzionario dalla chiave ricamata di traverso lungo il filo della schiena, il quale arrestandosi in fondo a un budello che puzzava di salnitro, indicò una grata che per mezzo di un praticabile fece abbassare ad altezza d'appoggio; fatti più prossimi, riuscirono a distinguere in fondo a una cella l'infelice Europeo che si sollevava, distolto dal suo stare bocconi, col naso tuffato in un disordine di scartafacci.
Sentendosi augurare un duplice cordiale bongiorno nella lingua materna, Johanaan s'era messo ritto, aggiustandosi i grossi occhiali rabberciati con dello spago.
Oh! mio Dio, i suoi principi qui! - Seratacce d'inverno, con gli zoccoli imbevuti di fanghiglia, in prima fila tra poveri diavoli, reduci dalla loro giornata salariata, che si attardano un attimo là, trattenuti da tirannici poliziotti a cavallo, per osservarli scendere impennacchiati dalle carrozze di gala e salire tra due file di sciabole sguainate lo scalone di palazzo, di quel palazzo dalle finestre 'a giorno' a cui andandosene egli mostrava il pugno mormorando ogni volta che «i tempi» erano vicini! - E ora, eccoli arrivati, questi tempi! ecco acquisita al paese la rivoluzione promessa! e dopo dio, ecco il suo povero vecchio profeta Johanaan! e questo intervento del re in persona, questa intrepida lontana spedizione dei suoi Principi venuti a liberarlo, senza alcun dubbio una consacrazione commovente voluta dai popoli per sigillare, grazie a lui, l'avvento della Pasqua Universale!
Per prima cosa, automaticamente si prosternò come d'uso dalle sue parti, sforzandosi di trovare una frase memorabile, storica, certo fraterna, degna anche...
La parola gli fu illico soffocata dal nipote del Satrapo del Nord, un soldataccio dalla calvizie apoplettica che farfugliava a sproposito, imitando Napoleone, la sua esecrazione per «gli ideologhi»: - «Ah! ah! eccolo l'ideologo, lo scribacchino, il riformato di leva, il bastardo di Rousseau! Sei venuto fin qui per farti impiccare, gazzettiere declassato! Un bel sollievo! Che la tua zazzera tignosa vada presto a raggiungere nel cesto della ghigliottina quelle dei tuoi confratelli del Calza-Becchi! sì, la congiura dei Calza-Becchi, teste ancora fresche...».
Oh! bruti, inestirpabili bruti! dunque il complotto del Calza-Becchi era fallito! i suoi fratelli, assassinati! e nessuno in grado di fornirgli particolari pietosi. Finito, finito, non resta che crepare come i fratelli sotto il Tallone Costituito. Lo sventurato pubblicista si chiuse risoluto in un silenzio, nell'attesa che, una volta sfollato tutto quel bel mondo, nel suo cantuccio morte lo colga. Due lacrimoni bianchi gli colarono sotto gli occhiali lungo le guance smunte verso la barba rada. - Di colpo fu visto ergersi sui piedi scalzi, le mani tese a un'apparizione, e singhiozzare gli epiteti più dolci della sua lingua madre. Tutti si volsero, - ah! giusto in tempo per vedere, in un tinnir di chiavi, sotto il lividore di quell''in pace', eclissarsi una svelta figura indubbiamente avvolta dentro una mussola d'impalpabile giunchiglia a pallini neri...
Johanaan ripiombò bocconi sul giaciglio; e come s'accorse d'aver rovesciato il calamaio sugli scartafacci, prese ad asciugare l'inchiostro con una tenerezza infantile.
Il corteo risalì, senza commenti; il nipote del Satrapo del Nord tormentando il collare della sua gorgera e masticando tra sé sacri princìpi. |