II
Come una bestiola ferita Andromeda
galoppa, galoppa del fragile galoppo di
un trampoliere in una regione di stagni; ancora più irata di dover ricacciare
indietro, incessantemente, i suoi lunghi capelli rossi che il vento le incolla
sulla faccia e sulla bocca. E dove va così, pubertà pubertà! nel vento e
tra le dune, con questi abbai di bestiola ferita?
Andromeda! Andromeda!
I piedi perfetti nei sandali di lichene, con al collo un giro di coralli
grezzi infilati in una fibra d'alga, ineccepibilmente nuda, inflessibile e
nuda, è cresciuta così, tra galoppate e raffiche e soli e nuotate e notti all'addiaccio.
La faccia, le sue mani, non sono più o meno bianche del resto del corpo;
il suo fisico minuto, con una capigliatura di un rosso seta che casca fino ai
ginocchi, ha la tonalità uniforme della terracotta lavata (Oh quei salti!
quei salti!). Bene armata, ben molleggiata, tutta abbronzata questa pubertà
selvatica, con tanto di gambe lunghe e sottili, coi fianchi dritti e fieri che
si affinano in vita proprio sotto i seni, un petto infantile, due ombre di
seni così inadeguati che il fiato, pur nel galoppo, li solleva appena (e
quando e come avrebbero potuto formarsi, andando sempre così controvento, il
vento salso che viene dal largo, e contro i getti furiosamente ghiacciati
delle onde?) e il lungo collo, e la piccola testa infantile un po' stravolta
entro la cornice rossa, e gli occhi ora penetranti come quelli degli uccelli
di mare ora smorti come le acque quotidiane... insomma una ragazzina compìta.
Oh quei salti, quei salti! e quei gagnolìi di bestiola ferita avvezza ai
disagi. Vi dico che è venuta su così, nuda e inflessibile e abbronzata, con
tanto di chioma rossa, tra galoppate e raffiche e soli e nuotate e notti all'addiaccio.
Ma dove va così, o pubertà, pubertà?
Proprio in fondo, ecco una bizzarra scogliera a forma di promontorio;
Andromeda la scala percorrendo un labirinto di rampe naturali: dalla stretta
cengia essa domina l'isola e la mobile solitudine che la isola. Nel mezzo
della cengia le piogge hanno scavato un catino che Andromeda ha lastricato di
ciottoli di nero avorio che trattengono un'acqua pura; quello è il suo
specchio, già da una primavera, e l'unico segreto che abbia al mondo.
È la terza volta, oggi, che torna a rimirarsi. Non è che vi si specchi
sorridendo, anzi fa il broncio, tenta di approfondire la gravità dei suoi
occhi, e gli occhi non si staccano dalla loro profondità. Ma la sua bocca!
non si stanca di adorare lo sbocciare innocente della sua bocca. E chi capirà
mai la sua bocca?
- Tutto sommato ho un'aria ben misteriosa! pensa tra sé.
Si dà un mucchio di arie:
- E poi ecco, sono io né più né meno; prendere o lasciare.
E riflette che, tutto sommato, manca di distinzione!
Ma ritorna ai suoi occhi. Ah! gli occhi sono belli, toccanti, e ben suoi.
Non si stanca di conoscerli, resterebbe là a interrogarli fino alle ultime
luci del giorno... E che cos'hanno che se ne stanno così infiniti? Perché
lei non è un altro? passerebbe la vita a spiarli, a sognare il loro segreto, in silenzio!
Ha un bel rimirarsi! Proprio come lei, il suo viso vive nell'attesa, serio e remoto.
Allora se la prende con la sua capigliatura: prova una ventina di
acconciature, ma alla fine esce sempre qualcosa di troppo pesante per la sua testolina.
Ecco sopraggiungere dei nembi carichi di pioggia che alterano il suo
specchio. Ha nascosto sotto una pietra una pelle di pesce seccata che le fa da
lima per le unghie; si siede e si cura le unghie. Sopraggiungono i nembi che
si lacerano in un frastuono di diluvio. Andromeda si precipita giù per la
scogliera e riprende il galoppo alla volta del mare, pigolando sotto l'acquazzone:
Ah! una panacea
Alla bua d'Andromeda!
Oh issa! Alla sua bua.
La nenia è tanto triste che qualche lacrima cola sul seno infantile. E l'acquazzone è già passato e il vento le scompiglia i capelli, una raffica via l'altra...
Oh issa!
Nessuno mi viene in aiuto?
Allora io mi butto!
Oh issa!
Ma non è che un'annaffiata, e corre a farsi una doccia di mare. Nell'atto
di buttarsi ci ripensa: ancora e sempre il bagno! Non ne può più di giocare
con le sorelle onde, grossolane, formosette, di cui conosce a sazietà la
pelle e i modi. Ecco. Si stende di schiena sulla sabbia fradicia, le braccia
in croce, di fronte all'irrompere dei flutti. Meglio così, non resta che
attendere un bel cavallone; dopo un minaccioso va e vieni una voluta che s'impenna
le salta addosso. La riceve da brava, a occhi chiusi, con un lungo singhiozzo
agonizzante, e si dimena per trattenere con tutte le membra quel mobile
guanciale diaccio che scorre e non le lascia niente tra le braccia...
Si siede, inebetita, osserva le carni che grondano da far pietà, e monda la chioma dalle alghe che la doccia vi ha impigliato.
Poi si butta risolutamente in acqua, schiaffeggia le onde a mulinello, si
tuffa e risale e soffia e fa il morto; una nuova bordata sopraggiunge e la
piccola ossessa, ecco, dopo il primo urto fa il salto della carpa e vuole
inforcare la creste! Ne afferra una per la criniera e la cavalca per un attimo
abbaiando selvaggiamente; ne sopraggiunge un'altra a tradimento, che la
disarciona, ma Andromeda si aggrappa a un'altra ancora; e tutte le si
ritraggono troppo svelte poiché non sanno aspettare. Il mare, che piglia
gusto al gioco, diventa insostenibile; allora Andromeda come un relitto si
lascia naufragare scarmigliata sulla sabbia, striscia fuori tiro dei flutti e
resta ventre sotto, semisommersa tra le sabbie mutevoli.
Una nuova falda d'acquazzoni trascorre sull'isola. Andromeda non si ritrae,
gemendo pel fragore diluviale si piglia tutto l'acquazzone, l'uggiolante
acquazzone che la solletica in un ribollìo lungo il filo della schiena. Sente
che la sabbia inzuppata le cede sotto poco a poco e si dimena per sprofondare
maggiormente. (Oh! ch'io sia sommersa, sia sepolta viva!)
Ma quei nembi diluviali se ne vanno com'erano venuti, anche il rumore s'allontana, ed è la solitudine atlantica dell'isola.
Andromeda si mette seduta a guardare l'orizzonte, l'orizzonte che
schiarisce senza un che d'insolito. E adesso? una volta che il vento l'ha
asciugata per benino, essa corre col fiato corto a scalare di bel nuovo la
scogliera promontorio dove almeno un barlume d'intelligenza l'attende.
Ma la brutta pioggia ha alterato la fattura del suo povero specchio.
Andromeda si scosta, sta per scoppiare in singhiozzi quando un grande
uccello di mare si avvicina a vele spiegate, dritto sull'isola, puntando verso
la scogliera, magari destinato a lei! Lancia a richiamo un pigolìo prolungato,
e s'accascia a ridosso della roccia con le braccia in croce, e chiude gli
occhi. Ah! piombasse quell'uccello sul suo esserino prometeico esposto là per
volere degli dei, e appollaiato sulle sue ginocchia la frugasse dentro con un
becco salutare, implacabile, fino a estrarle il nòcciolo ardente della sua bua!
Avverte invece il volo del grande uccello che passa: è già lontano, quando riapre gli occhi, ansioso certo di carogne ben più eccitanti.
Povera Andromeda che non sa proprio da che parte abbordare il suo essere per esorcizzarlo.
E ora? non resta che ricontemplare il mare così limitato e tuttavia così
unicamente aperto alla speranza... E ancora, un ben puerile tormento è il suo
se confrontato a quella solitudine a perdita d'occhi! Con una sola ondata il
mare può appagarla a morte; ma lei, piccola carne gracile, come può pensare
di appagarlo e di scaldarlo il mare?! Come se bastasse allungare le braccia...
Del resto, poi, si sente così stanca! Una volta sì che galoppava tutto il
giorno nel suo regno, ma oggi con le palpitazioni di cuore... Un altro di quei
grandi uccelli di mare che passa. Vorrebbe tanto adottarne uno, cullarlo! Non
uno che faccia sosta sull'isola. Bisogna ucciderli a colpi di fionda per vederli davvicino.
Cullare, essere cullata; il mare non è che la culli tanto dolcemente.
È caduto il vento, ed è la bonaccia; l'orizzonte s'appresta alla cerimonia del tramonto e fa tabula rasa, in vena di malinconia.
Cullare, essere cullata!... E la testolina stanca di Andromeda si riempie
di ritmi materni; le ritorna il solo ritmo umano che conosca, una leggenda: «La
verità intorno al caso Tutto», poemetto sacro con cui il Drago, suo custode, le cullò l'infanzia.
«In principio era l'Amore, legge universale, centro in cosciente,
infallibile. Nient'altro che l'aspirazione infinita all'Ideale, immanente ai turbinii solidali dei fenomeni.
«Chiave di volta per la Terra, sua Cisterna, sua Sorgente è il Sole.
«Ecco perché il mattino e la primavera s'addicono alla gioia, perché il
crepuscolo e l'autunno s'addicono alla morte. (Ma dato che non c'è niente di
più esaltante per un organismo superiore del sentirsi morire pur sapendo che
non è vero, il crepuscolo e l'autunno, il dramma del sole e della morte sono in massimo grado estetici).
«L'impulso dell'Ideale è dato da sempre e da sempre, nello spazio
infinito, va oggettivandosi in innumeri mondi che si formano e organicamente
si evolvono nel modo più elevato che gli elementi loro consentano, per
disgregarsi poi in nuove gestazioni da laboratorio.
«Unica preoccupazione dell'incosciente iniziale è di salire più in alto,
preso com'è dalle sue cure particolari ch'esso tiene sotto controllo in altri
mondi più vivaci e più seri; niente lo saprebbe distrarre dal suo sogno futuro.
«E i pianeti, che avendo già percorso l'evoluzione propria
all'Incosciente non hanno fondamento sufficiente per servire da laboratorio
all'Essere futuro, sono dall'Incosciente trascurati; le loro piccole
evoluzioni si fanno fatalmente, sulla scorta dell'impulso già dato, come
altrettante prove idem e trascurabili d'un modello acquisito e arcinoto.
«Ordunque, allo stesso modo che l'evoluzione fatale dell'umanità nel
grembo della madre è una miniatura riflessa dell'intera evoluzione terrestre,
l'evoluzione terrestre non è che una miniatura riflessa della Grande
Evoluzione Incosciente nel Tempo.
«Altrove, altrove, negli spazi infiniti l'Incosciente è più progredito. Che feste!...
«La Terra, dovesse anche produrre degli esseri superiori all'Uomo, non è
che una prova idem e trascurabile d'un modello d'apprendimento.
«Ma la buona Terra originata dal Sole per noi è tutto, dotati come siamo
di cinque sensi cui tutta la Terra risponde. O succulenze, stupori plastici,
fragranze, strepiti, sorprese a perdita d'occhi, Amore! O vita mia di me!
«L'Uomo non è che un insetto sotto i cieli; fate che egli si rispetti e
può essere davvero Dio. Uno spasimo della creatura vale l'intera natura».
Tale è il salmodiare uggioso di Andromeda dinnanzi a un'altra sera che
cala; e non conosce altra dolcezza che la lezione appresa. Ah! essa si stira e geme.
Ah! fino a quando continuerà a stirarsi e a gemere?...
Con voce alta e intelliggibile, nella solitudine atlantica della sua isola, essa dice:
- Sì, ma dal momento che ignoro quale sesto senso sconosciuto vuole
schiudersi, e che niente, niente gli risponde! Ah! - Gratta gratta, la verità
è ch'io sono troppo sola, troppo appartata, e che non so proprio come tutto
questo andrà a finire.
Si accarezza le braccia, e dall'esasperazione digrigna i denti, si graffia
e si sfregia appena con una scaglia di silice a portata di mano.
- O dei! non posso mica togliermi la vita tanto per provare!
Piange.
- No, no! Mi si trascura troppo! Anche se ora venissero a cercarmi per
portarmi via... ma io serberei rancore tutta la vita, serberei sempre un po'
di rancore. |