I
O patria monotona e immeritata!...
Isola, unicamente, in un giallo grigio di dune sotto cieli migratori, e il
mare dappertutto che chiude la vista, coi gridi e la speranza e la malinconia.
Il mare! da qualunque parte lo si scruti, per ore e ore, in qualunque parte
lo si sorprenda: sempre lui, mai in difetto, sempre solo, dominio
dell'insocievole, gesta in fìeri, inappetibile cataclisma - come se lo stato
liquido in cui ci appare non fosse altro che decadenza! E i giorni in cui
butta a mare tale stato (liquido)! e quelli più intollerabili quando assume
la smorfia vittimistica di chi non ha una faccia della sua tempra da rimirare,
di chi non ha nessuno! Il mare, sempre il mare, senza un attimo di cedimento!
Insomma, non ha certo stoffa d'amico (Oh davvero! che si rinunci a una simile
idea, finanche alla speranza di condividere familiarmente le sue rabbie,
restando soli soletti malgrado tutto il nostro frequentarci).
O patria monotona e immeritata!... Quando mai tutto ciò finirà? - Ma come!
in tema d'infinito: lo spazio monopolizzato da un mare esclusivo impassibile e
senza limiti, il tempo espresso da cieli esclusivi percorsi da stagioni
impassibili in un migrare d'uccelli striduli grigi e selvatici! - Eh! che ne
sappiamo noi di tuttociò, che possiamo fare di fronte a una simile scontrosità
confusa e ineffabile! Allora tanto vale morire subito, dato che ci portiamo
dentro fin dalla nascita un buon cuore sentimentale.
Un mare qualsiasi, oggi pomeriggio, d'un verde scuro a perdita d'occhi; un
accavallarsi a perdita d'occhi d'innumeri schiume tutte bianche ora accese ora
spente ora riaccese, gregge sterminato di pecore natanti, anneganti,
riemergenti e mai approdanti, e che si lasceranno sorprendere dalla notte. E
su tutto questo, i trastulli dei quattro venti, un trastullarsi per amore
dell'arte, pel gusto di un meriggio trascorso a frustare le creste di schiuma
dentro un polverìo iridescente. Che un raggio di sole oh! venga a franare, e
sulla schiena delle onde ecco la carezza d'un arcobaleno simile a un'imponente
orata apparsa per un attimo a galla e subito inabissata, ottusamente malfida.
Ecco tutto. O patria immeritata e monotona!...
Il vasto ripetuto mare giunge asmatico e grondante fino alla piccola ansa
dalle due grotte imbottite di piume d'edredone e di pallide stramaglie di
fuchi troppo cresciuti. Ma il suo lamento non copre i gagnolìi acuti e rauchi
di Andromeda distesa là, poggiata sui gomiti ventre sotto, in faccia
all'orizzonte, intenta a scrutare immemore il meccanismo dei flutti, dei
flutti che nascono e muoiono a perdita d'occhi. Andromeda si geme addosso;
geme e d'improvviso s'accorge che il suo gemere fa il paio col lamento del
mare e del vento, due compari forti e scontrosi che neppure la degnano d'uno
sguardo. Allora smette, brusca, poi cerca intorno, se c'è qualcuno con cui
attaccare briga. Chiama:
- Mostro!...
- Pupa?...
- Ehi mostro!
- Pupa?
- Si può sapere che stai lì a fare?
Il Mostro-Drago accovacciato all'ingresso della sua grotta e col posteriore
a mollo, si volta facendo brillare il dorso tempestato di tutti i preziosi
delle Golconde sottomarine, alza con aria compassionevole le palpebre
frangiate di cartilaginose passamanerie multicolori, scopre due vaste pupille
d'un azzurro acquoso e dice (col tono di una persona a modo che ha avuto i suoi dispiaceri):
- Lo vedi, Pupa, io spacco e levigo ciottoli per la tua fionda; avremo
ancora qualche passo d'uccelli prima che vada giù il sole.
- Smetti, questo rumore mi fa male. E non voglio più uccidere gli uccelli
che passano. Che passino oh! e rivedano i loro paesi. - O voli migratori che
passate senza vedermi, orde di flutti sempre in arrivo che smorite senza
portarmi niente, come mi annoio! Stavolta sì che sto male... - Mostro?...
- Pupa?
- Dimmi un po', perché da qualche tempo in qua non mi porti più delle
gemme? Cosa ti ho fatto, eh, zietto?
Il Mostro sfoggia un'alzata di spalle, raspa la sabbia alla sua destra,
alza un ciottolo e afferra una manciata di perle rosa e di cristalli d'anemoni
che teneva in serbo per qualche capriccio, quindi deposita il tutto sotto il
nasino d'Andromeda. Andromeda, sempre ventre sotto e poggiata sui gomiti,
sospira senza scomporsi:
- Se rifiutassi con durezza, con inspiegabile durezza?
Il Mostro si riprende il suo tesoro e lo spedisce giù alle natali Golconde sottomarine.
E Andromeda a rotolarsi sulla sabbia, a gemere tirandosi i capelli sulla faccia in un disordine patetico:
- Oh! le mie perle rosa, i miei cristalli d'anemoni! Oh! ne morirò, ne morirò! e sarà tua la colpa. Ah! tu non conosci l'Irreparabile!
Ma si calma presto, per venire ad allungarsi strisciando, con abituale
civetteria, sotto il mento del Mostro e con le bianche braccia gli circonda il
collo, un collo di un viola viscido. Il Mostro sfoggia un'alzata di spalle e
comincia a secernere, bonario, il musco selvatico per tutti i pori carezzati
da quelle braccine di carne, le braccine della cara bimba che subito riprende a sospirare:
- O Mostro, o Drago, tu dici di amarmi, e non puoi niente per me. Vedi che
la noia mi consuma, e non puoi niente. Se tu potessi guarirmi, farmi qualcosa, come ti amerei! ...
- Nobile Andromeda, figlia del re d'Etiopia! Il povero mostro, Drago suo
malgrado, non può risponderti che circonlocutoriamente: - Non ti guarirò se
non quando mi amerai, perché è amandomi che tu mi guarirai.
- Sempre il fatidico rebus! Ma se ti dico che ti voglio bene!
- Non è che me lo fai sentire poi tanto. Ma lasciamo perdere; sono ancora un povero mostro di Drago, uno sventurato Catoblepa.
- Volessi almeno prendermi in groppa e trasportarmi in mezzo alla gente. (Ah, come vorrei lanciarmi nel bel mondo!) Una volta là te lo darei davvero un bel bacetto in premio della tua fatica.
- È impossibile, te l'ho già detto. Qui dovranno sciogliersi i nostri destini.
- Oh dimmi, dimmi, che ne sai?
- Non più di te, o nobile Andromeda dai rossi capelli.
- I nostri destini i nostri destini! Ma se invecchio di giorno in giorno, io! No, non si può più andare avanti così!
- E se facessimo una giterella in mare?
- Le conosco le vostre gite! Sarebbe ora di trovare qualcosa di meglio.
Andromeda torna a buttarsi ventre sotto sulla sabbia che graffia e raspa lungo i fianchi legittimamente affamati, poi ricomincia i suoi gagnolìi acuti e rauchi.
Il Mostro, tanto per canzonare quella lagna sentimentale, imita il falsetto
della povera bimba che sta cambiando voce, e attacca con aria indifferente:
- Piramo e Tisbe. C'era una volta...
- No! niente storie defunte o m'ammazzo!
- Ma insomma che c'è! Bisogna reagire! Va a pesca, a caccia, infila delle
rime, suona la buccina ai quattro punti cardinali, rinnova la tua collezione
di conchiglie; o se vuoi, incidi dei simboli sulle pietre refrattarie (ecco un
modo per passare il tempo)...
- Non ce la faccio, ti dico che non ho più voglia niente.
- Guarda, guarda! Pupa? guarda lassù. Oh! la vuoi la tua fionda?
Dal mattino, era già il terzo stormo d'uccelli migratori autunnali; il
loro triangolo passava con lo stesso palpito ben regolato, senza dispersioni.
Passavano, e stasera sarebbero stati ben lontani...
- Oh andare dov'essi vanno! Amare, amare!... grida la sventurata Andromeda.
La piccola indemoniata è in piedi d'un balzo e urlando tra le raffiche
sparisce a gran galoppo dietro le dune grige dell'isola.
Il Mostro sorride bonario, poi riprende a levigare i suoi ciottoli; - a
quel modo il savio Spinoza doveva lustrare le sue lenti. |